Coltsblood – Ascending Into Shimmering Darkness
Il peso che gli inglesi Coltsblood gettano addosso con “Ascending Into Shimmering Darkness” è intollerabile. Un disco allucinato, ansiogeno, deprimente: cos’altro ci si potrebbe aspettare da un mix paludoso di sludge con schizzi di black metal e (funeral) doom? Magari “The Final Winter”, l’ultimo pezzo del lavoro che sembra carezzare i timpani con i suoi delicati intrecci di chitarra, ma in realtà è solo l’ultimo chiodo nella bara.
Fire From the Gods – Narrative Retold
È ovvio che rap, hardcore e metalcore non sono una novità, e non lo è neanche l’insieme di tutti questi generi e sottogeneri. Ma ciò che per i Fire From the Gods, arrivati al secondo disco in carriera con “Narrative Retold”, fa la differenza è il frontman AJ Channer, che destreggiandosi tra screaming, cantato pulito e freestyle, riesce ad esprimere al meglio la tematica socio-economica che si dipana tra le fondamenta robustissime di questo lavoro.
Voyager – Ghost Mile
L’Australia, notoriamente terra di progressive metal, ha dato i natali anche ai Voyager, che essendo arrivati oggi al sesto album con “Ghost Mile”, sono dei veri e propri veterani del genere. E lo dimostrano con un’opera fresca e spensierata, “pop” se vogliamo, ma non per questo leggera e non strutturata. Pur ricalcando stilemi e ritmiche già sentite (da loro e da altri, vedi alla voce Periphery), “Ghost Mile” è un grandissimo segno di maturità, che non possiamo che rispettare e onorare.
Ocean Grove – The Rhapsody Tapes
La prima volta che ho ascoltato “The Rhapsody Tapes”, mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo per lo meno di una quindicina di anni. Il debutto degli australiani Ocean Grove è un evidente tributo a quel sound alt-nu-metal di fine ’90/primi 2000, ma è ben lungi dall’essere una mera copia carbone. I Nostri infatti filtrano queste influenze con una sensibilità moderna, buttando in campo anche dubstep e hardcore rap. Per fan dei mash-up più furiosi.
Wolfbrigade – Run With The Hunted
Di voglia i Wolfbrigade ne hanno a palate. “Run With The Hunted” è il decimo full-length in 22 anni di carriera, ma gli svedesi non hanno fatto pace con loro stessi e non hanno perso quella pacca tipica dell’hardcore punk mischiata a un’attitudine alla Motörhead e a un pizzico di buon death ‘n’ roll. Senza fronzoli né circonvoluzioni (d’altronde, chi se le aspetta), ma con un retrogusto melodico da anthem davvero sfizioso in molti pezzi (vedi “Kallocain”).
Mazze – Zeal
Uscita da non perdere per chi mastica Periphery e band strumentali affini come Intervals e Polyphia. I Mazze arrivano dal Brasile e puntano forte sull’atmosfera e inserti elettronici per valorizzare alcuni passaggi vicini a quanto fatto da Plini nelle sue composizioni maggiormente dirette. “Black Omen” e “Dreamwalker” potrebbero darvi una buona idea del prodotto in questione, grazie a naturali progressioni che si aprono a melodie (per la verità abbastanza ovvie) e break simil-fusion o acustici per poi rintanarsi spesso in una comfort zone djent.(j.c.)
All But One – Square One
Dietro agli All But One si celano membri di Alestorm, Heaven Shall Burn e When Our Time Comes, ma attenzione: le band appena citate non c’entrano praticamente nulla con questo side project. Infatti il piacevole metallino –core, pur andando giù liscio fino alla fine, non lascia molto dopo l’ascolto. Sarà per i vocals, sempre puliti e per questo poco vari, o per una certa omogeneità di fondo. Ma avercene di dischi come “Square One”.
Malevolence – Self Supremacy
Dopo il fulminante debutto del 2013, i cattivissimi (nomen omen) Malevolence ritornano con un disco che vi asfalterà, lasciandovi con il fiato sospeso fino all’ultima nota, anche e soprattutto quando il ritmo decelera sensibilmente. La formazione, in rapidissima e interessante crescita, fa il verso ai primissimi Slayer, ma con uno spirito hardcore preponderante e assai velenoso. Da tenere d’occhio.
No Sin Evades His Gaze – Endless Disconnect
I No Sin Evades His Gaze interpretano quello che molto genericamente potremmo definire “modern metal” in un modo tutto loro. Tecnici sì, ma anche muscolari e anthemici, energici ma anche radio friendly. Insomma, il secondo disco dei NSEHG ha tutte le carte in regola per uscire dalla nicchia e rivolgersi a un pubblico più ampio, sempre che la fortuna e i contatti giusti li assistano nel prossimo futuro.
John Frum – A Stirring In The Noos
Ex The Faceless, The Dillinger Escape Plan e John Zorn hanno plasmato una creatura magnificamente dissonante e frenetica che risponde al nome di John Frum. Se per i neofiti “A Stirring In The Noos” può risultare un coacervo di suoni insensati, i più allenati potranno godere di una prova di tecnical death metal speziato (ovvio) di mathcore che rivelerà ad ogni nuovo ascolto dettagli sempre diversi.
Mountaineer – Sirens & Slumber
Malinconica e decadente come una sera calda e umida di fine estate. Ecco come definire la primissima fatica in studio dei californiani Mountaineer. “Sirens & Slumber” è un lavoro post-rock cupo e al tempo stesso arioso. Serve ancora qualche limatura alle sbavature dei vocals, ma la strada imboccata è quella giusta. Al prossimo giro ci aspettiamo qualcosa che rasenti la perfezione, gli strumenti per farlo i ragazzi ce li hanno tutti.
Oceano – Revelation
Dopo due anni di silenzio, tornano i sempre incazzosi Oceano con “Revelation”. Ma nonostante il titolo illuminante, non aspettatevi chissà quali folgorazioni sulla via Damasco. La band, capitanata dall’incorruttibile Adam Warren, ha detto quello che doveva dire nel deathcore prima e meglio di molti altri, ma non basta. Nonostante “Revelation” sia tutto fuorché un brutto disco, è arrivato il tempo di cambiare registro.
Stolas – Stolas
La band di Carlo Marquez prosegue nel creare l’ibrido ideale tra Mars Volta e Protest The Hero. Il progressive rock contratto da sprazzi di math rock cerca di piegarsi all’esigenza del singolo pezzo (cfr. “Maximizer”) ma non sempre riesce nell’intento, risultando a lungo andare ripetitivo. Nessuno discute sulle capacità esecutive dei Nostri, ma manca quel singolone capace di sconvolgere l’ascoltatore. La doppietta “Catalyst”/”Euphoria” è forse il picco del disco, ma giunge tardi, soprattutto dopo una prima metà che lascia piuttosto indifferenti. (j.c.)