Judas Priest – Redeemer of Souls

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Io non ci sto.
Non ci sto a fare il fanboy solo perché i Judas Priest sono leggendari.
Non ci sto a fare il nostalgico solo perché Rob Halford è una bellissima persona.
Non ci sto a fare l’esaltato solo perché la precedente opera dedicata a Nostradamus era imbarazzante.
Il nuovo disco dei Judas Priest, uscito sull’onda lunga dell’entusiasmante tour d’addio (a cosa?), è roba da spalancare le braccia e sospirare un gran “eh vabbeh”. Dare una pacca sulle spalle a Ezio Greggio Glenn Tipton e Rob Halford e dirgli “grazie raga, grazie. A posto cosi eh?”. Ma d’altra parte cosa vogliono fare, cosa devono dimostrare? Il genere l’hanno inventato loro negli anni ‘70, l’hanno popolarizzato negli ’80, l’hanno pure re-inventato a inizio ’90 e ci hanno riprovato una seconda volta a fine ’90. Saranno passati ormai dieci anni da un disco reunion di cui non si ricorda nessuno e 6 anni da quel “Nostradamus” che se te lo ricordi stai male.
Il nuovo “Redeemer of Souls” presenta 13 nuovi pezzi dove ultra sessantenni cercano di ricordarsi come si faceva quella cosa lì con le chitarre. Ok, è metallo classico senza strani grilli per la testa, ma il trittico di apertura è talmente piatto da farli sembrare HammerFall, piuttosto. Ok, sono tornati a riffare di brutto ma la tonalità delle chitarre è abbassata per venire incontro ad Halford e il suono è più impastato, andando a perdere la carica, l’impatto e l’assalto della sound “twin lead” della coppia d’oro Titpon/Downing. Ok Halford è sempre Halford con la sua voce inconfondibile, ma l’età si sente, senza alcun dubbio, limitando parecchio le possibilità.
E’ un disco generico, senza nessuna scintilla davvero interessante, che addirittura arriva all’autoplagio cannibalizzando, che so, un riff da “Love Bites” o una parte di batteria da “Painkiller”. Quando Halford prova qualche acuto viene la pelle d’oca, e non in senso positivo. E poi cos’è questo nuovo trend di raccontare storie tipo la spada di Damocle, Odino e il Valhalla… Sembrano certi pippotti degli Iron Maiden post-reunion. I Judas sono sempre stati coatti, sopra le righe, tamarri: dovrebbero limitarsi a impasti di parole senza senso su metallurgia, velocità, escursioni termiche. Le storie del mago non sono decisamente nel loro registro.
Si salva qualche briciola, come “March Of The Damned”, l’assalto epico di “Battle Cry” o un richiamo agli anni ’70 come “Crossfire” ma sono davvero dei contentini. Del resto ve ne sarete dimenticati domani.
Vogliamo ricordarceli con l’ultimo tour “Epitaph”, dove – pur con le difficoltà vocali di Halford – hanno regalato ore indimenticabili coprendo tutta la discografia. Accontentarsi di una roba come quest’ultimo disco è un crimine nei confronti della loro discografia.
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