Limbs – Falling Snow – This White Mountain On Which You Will Die – Fire Above, Ice Below – Not Unlike The Waves – Our Fortress Is Burning…I – Our Fortress Is Burning…II / Bloodbirds – Our Fortress Is Burning…III / The Grain
www.agalloch.org
www.theendrecords.com
Lento, sinuoso, umbratile, dilatato. Ma soprattutto, emozionante. Si potrebbero spendere molti altri aggettivi per descrivere la terza fatica sulla lunga distanza degli Statunitensi, ma penso che quelli utilizzati sintetizzino efficacemente gli umori prevalenti di “Ashes Against The Grain”. Rispetto al precedente “The Mantle”, gli Agalloch spostano ancora una volta il loro baricentro musicale: se il sopraccitato tradiva pesanti influenze neofolk di ascendenza Death In June (cfr. la traccia d’apertura “A Celebration For The Death Of Man”), e in generale era costruito quasi interamente sul paradigma folk – metal, questa nuova opera si mostra maggiormente debitrice delle atmosfere e delle progressioni caratteristiche di band quali In The Woods… (quelli di “Omnio”, principalmente), i Katatonia dell’era di mezzo (cfr. la seconda traccia, “Falling Snow”), ma soprattutto svela definitivamente l’amore dei Nostri per le atmosfere del cosiddetto post – rock. Impossibile, infatti, non accorgersi dell’influenza che un gruppo come i Godspeed You Black Emperor! esercita lungo tutto il disco: influenza che comunque viene quasi dissimulata, grazie alla notevole capacità di assimilazione che gli Agalloch dimostrano di possedere. Così il clima post – industriale e le atmosfere plumbee dei Canadesi vengono trasferite in composizioni il cui scopo principale è quello di rappresentare la grandezza della natura, in tutta la sua malinconia e la sua maestosità. Probabilmente il trittico finale è quello che sintetizza al meglio il loro nuovo corso, oscillante tra progressive, liquidità psichedeliche, crescendo strumentali in bilico tra Pelican e i già citati Godspeed, il tutto concluso da una coda noise – ambient, che potrebbe comparire su di un disco dei Raison D’Etre. Un album complesso, nel quale influenze e spunti eterogenei tra loro vengono utilizzati con gran disinvoltura; sicuramente questo è causa di qualche sbavatura di troppo, non riscontrabile in “The Mantle” (che chi scrive considera il loro capolavoro), ma quello che conta è la creatività incontaminata che riesce a scaturire da queste otto tracce, e, insieme ad essa, una carica emotiva ancora una volta stordente. Probabilmente gli Agalloch stanno architettando un altro capolavoro, da qui a quattro anni. Per adesso godiamoci questo stupendo disco di transizione.
S.M.