Marilyn Manson – The Pale Emperor

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Devo essere sincero: avevo quasi perso la speranza, e mi stavo rassegnando a vedere Marilyn Manson nella sua fotocopia in bianco e nero di sempre più scarsa qualità a cui aveva abituato con gli ultimi album. La parabola discendente, iniziata dopo “The Golden Age of Grotesque”, era impietosa e ci proponeva un Manson con le polveri bagnate, incapace di incidere sia come musicista che come personaggio. A due anni e mezzo di distanza da “Born Villain”, che tutto sommato qualche segnale incoraggiante l’aveva anche dato, il Reverendo torna a far parlare di sé con il suo nono album, intitolato “The Pale Emperor”: il bianco e nero rimane, letteralmente nella copertina, metaforicamente nella musica, ma invece di una brutta fotocopia il risultato è una bella fotografia artistica.

Ad aprire l’album c’è “Killing Strangers”, un brano che introduce alle atmosfere blues, il quale si appoggia su un giro di basso sincopato e sui tipici archi sintetici, in cui la voce distorta del cantante aumenta la tragicità. “Deep Six”, scelto come secondo singolo, inganna con un tenebroso arpeggio iniziale di chitarra e poi si lancia verso ritmi veloci e ballabili, fino ad esplodere nel ritornello; si tratta forse della canzone che più lega con il passato. “Third Day of a Seven Binge”, singolo di lancio, è un brano in cui ancora una volta il blues e l’industrial si fondono. Ma è “Mephistopheles of Los Angeles” la traccia più esplicativa dell’album, con un ritmo alla “The Beautiful People” e uno stato d’animo più cupo e meno cattivo, con un risultato finale che va quasi a sconfinare nello psychobilly. Altra traccia degna di nota è “The Devil Beneath My Feet” , la più veloce del lotto, che inizia con una base molto minimale e per tutta la durata crea l’attesa di un ritornello che però non arriva mai.

Il blues è un fantasma che aleggia su tutto l’album senza mai essere affrontato direttamente, tranne che in “Birds of Hell Awaiting”, canzone basata su un classico giro, ovviamente appoggiato su sonorità industrial, e in “Odds of Even”, ultima traccia dell’edizione standard, una lenta e tetra marcia che subisce un climax nella parte finale, ed è la versione mansoniana del funerale blues, brano perfetto per congedare l’ascoltatore.

L’impressione è che Manson abbia trovato una nuova dimensione, completando un viaggio che lo ha portato da una rabbia innata, ormai fuori luogo per un uomo che si avvicina ai cinquanta, a una realistica e sincera disillusione. Il tutto è stato sapientemente costruito in modo da mantenere lo stile e l’approccio musicale che hanno fatto la sua fortuna negli anni ’90, ma che erano diventati una gabbia nella quale non riusciva a muoversi.
Twiggy Ramirez, bassista e chitarrista, unico componente della formazione originale assieme a Marilyn Manson, ha saputo creare il terreno giusto per lo sviluppo del sound, soprattutto grazie a potenti giri di basso, che formano il punto d’appoggio di tutti i brani.

“The Pale Emperor” è complessivamente un ottimo album, ha un grande impatto già al primo ascolto, segue un tema ricorrente e lo propone da diverse angolazioni, senza risultare mai ripetitivo. Per la band potrebbe rappresentare l’inizio di un nuovo periodo artistico, e anche contribuire a quel ricambio generazionale nella fanbase, che di fatto non c’è mai stato.

 

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