[Indie/Dub/Ambient/…] Shapes&Sizes-Burial-Beirut-Dalek-Liars (2007)


 

2007, a very Cold year (L.F. best of)

 

 

Dunque lui dovrebbe scrivere di più, perché la roba che si spara lui non se la spara nessuno su Outune, ergo i suoi scritti eleverebbero la nostra statura verso le altezze intellettuali dei siti colti di indie rock e simili che tanto amo (oddio not really, ma fa niente, ndJ³), oltre ad ampliare ancora la nostra proposta, ergo a buon intenditor… Comunque se vi domandavate che diavolo fossero i dischi presenti nel Pollo del nostro amato Luca Freddi, ecco di che si trattava. Enjoy.

 

Shapes and sizes – Split Lips, Winning Hips, A Shiner

Da dove arrivano le cose più interessanti degli ultimi 5 anni? Troppo semplice la risposta: Canada. Questo quartetto arriva alla seconda prova con una freschezza pari almeno a quello dell’acqua di una fonte del Trentino. La materia è un pop-rock/post-punk/avant instabile ricco di divertimento, di colori e di giochi che deformano il pop tra tensioni spasmodiche, sussulti e ritmiche sincopate. Una band, a conti fatti, piene di idee, anche irrazionali a volte, che può ricordare in questo modus operandi gli Architecture In Helsinki.

 

 

Burial – Untrue

Burial ovvero il ritorno del dub step. Notturno e celebrale fa il botto alla seconda prova dopo un esordio che aveva già fatto parlare di sè. L’aspetto che lo pone tra “i migliori dell’anno” è il riprendere il passato per trasferirlo nel presente con sapienza.
Tra saturazioni, fumi che salgono nelle orecchie, il dub vi farà pulsare ogni singola estremità. Occhio a non rimanerne troppo rapiti, insomma.

 

 

Beirut – The Flying Club Cup

Dopo la sbornia balcanica dell’anno scorso Zack Condon dopo l’esaltante “Gulag Orkestar” sposta un po’ il tiro del suo progetto. Anche se la qualità non raggiunge il predeccessore il disco, pur non esplosivo, non sfigura affatto visto il livello medio delle uscite del 2007. Il territorio in cui bazzica il nostro si è fatto tutto ad un tratto più pop mentre Zack come un errante sta spostandosi (musicalmente) dai Paesi dell’Est verso l’Europa Occidentale (chanson francese soprattutto), perdendo per strada, quasi come un Pollicino, briciole del suo patrimonio balcanico.
Insomma quello che viene fuori tra corno da caccia, archi, fisarmoniche e trombe è una specie di Sufjan Steven modificato dal color seppia di inizio Novecento.

 

 

Dalek – Abandoned Language

L’hip hop/rap non è lo stesso da quando ci hanno messo le mani i gruppi del giro Anticon. Si sa. Si è evoluto, fortunatamente. Ma anche i Dalek hanno la loro parte in questa storia di mutazioni. Il loro quarto disco è come al solito una bomba ad orologeria innescata nella terra desolata post-industriale. Un fiume di lava torrenziale, o a volte una stratificazione ambient scura su cui poggiare le rime, figlie dell’acume politico-propagandistico dei Public Enemy. Devastante per poetica e sugestione.

 

 

 

Liars – Liars


E’ arrivato il quarto disco dei newyorkesi e anche per questo si parla di evoluzione costante dei suoni e del progetto musicale. Proprio per questo motivo il disco è da tenere in considerazione a fine anno. La band ha dimostrato di essere una voce off nel panorama indie, guidato da una schizofrenia acrobatica. Sono passati con una naturalezza disarmante dall’electro-funk dell’esordio al tribalismo ostico di “Drum’s Not Dead”. Ora, come se fossero per l’ennesima volta nati ex novo, fatto stampare una nuova carta d’identità, ritornano ad usare le chitarre in direzione wave, scrivendo qualcos’altro sulla scia dei primi grumosi e art-rock Sonic Youth.

L.F.

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