Robert Plant, il report e le foto del concerto all’Hydrogen Festival del 14 luglio 2014

Non è più (solo) rock and roll. Robert Plant ha completato la trasformazione della sua musica in qualcosa di diverso, come dimostrato anche all’Hydrogen Festival di Piazzola sul Brenta.

Il set, come Pistoia e Roma, alterna classici di un repertorio più che glorioso alle ultime creazioni. Così il rock dei Led Zeppelin rivive in una nuova forma, mescolando a  psichedelia, blues e folk i forti sapori d’ Africa dovuti agli interventi di Juldeh Camara con il suo violino che con una sola corda unisce Mali e Mississippi. I Sensational Space Shifter salgono sul palco quasi alle 22, dopo una lunga attesa nel corso del quale i Mississippi All Stars, tre mattacchioni picchiatori di chitarre e tamburi in perfetta alternanza, hanno scaldato a dovere il pubblico.

Preceduta da una lunga melodia orientale ecco “No Quarter”, senza i lunghi soli strumentali dell’originale ma ricca di pathos, che sfocia nella tambureggiante “Turn it Up”, dall’ultimo album in uscita a settembre e poi in “Spoonful”, datata 1931 che riporta tutto al blues delle radici. Anche “Black Dog” muta d’accento, rivelando cadenze primordiali quando entra Camara e la voce di Plant, che evita saggiamente le timbriche più alte, padroneggia comunque la materia. Robert presenta a dovere il gruppo, tra cui spiccano due chitarristi che sanno il fatto suo (cioè conoscono a menadito le partiture dei Led Zeppelin) come Skip Tyson e Justin Adams, che fanno il lavoro di Page aggiungendovi anche del proprio. Alla nuova “Rainbow” con tutti i membri al tamburo, si salda, suscitando il primo boato (ma è già dal secondo pezzo che Plant ha fatto cantare il pubblico con lui), “Goin’ to California”, gemma acustica dal quarto album degli Zep e il confronto è sinceramente impietoso, poi “The Enchanter” affascina con tocchi quasi trip-hop. “Babe I’m Gonna Leave You” è da brividi, introdotta da Tyson alla chitarra flamenco e la voce di Plant rievoca antichi splendori. Ma non è un concerto di sola nostalgia, è una festa della musica in tutte le sue declinazioni, un incontro felice di culture e continenti.

Così “Little Maggie” offre nuove emozioni, sembra un reel celtico ideato nel Sahara e un medley irresistibile tra “You Shook Me”, “Whole Lotta Love” con il suo riff immortale e “Who do You Love” ripropone grandi classici in nuovi arrangiamenti. Il bis, con “Nobody’s Fault But Mine” ricondotta ad un asciutto blues, “Hey Girl” e l’immancabile inno “Rock and Roll” conclude i festeggiamenti. Un’ora e mezza di musica soltanto, ma ben concentrata. Difficile, oggi, chiedere di più a mister Plant, che non è Springsteen, e il pubblico dimostra di capire.

Foto di Nicola Lucchetta

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